Nebbiolo
Per un italiano amante del vino, soprattutto se settentrionale, il nebbiolo non è solo un'uva. È un insieme di evocazioni, emozioni, suggestioni che ricordano momenti di convivialità, tavoli, paesaggi, confronti. Uva tutt'altro che semplice da coltivare, e, fatta vino, ancor più difficile da bere soprattutto in gioventù, il vino nebbiolo rappresenta una splendida metafora non solo della civiltà contadina che l'ha tutelato nei secoli, ma più in generale del carattere e della personalità dell'italiano del nord.
Produttori del Barbaresco Langhe Nebbiolo 2022
Produttori del Barbaresco Barbaresco 2020
Rainoldi Valtellina Superiore Sassella 2021
Rainoldi Sfursat Fruttaio Ca' Rizzieri 2021
Nebbiolo
Per un italiano amante del vino, soprattutto se settentrionale, il nebbiolo non è solo un'uva. È un insieme di evocazioni, emozioni, suggestioni che ricordano momenti di convivialità, tavoli, paesaggi, confronti. Uva tutt'altro che semplice da coltivare, e, fatta vino, ancor più difficile da bere soprattutto in gioventù, il vino nebbiolo rappresenta una splendida metafora non solo della civiltà contadina che l'ha tutelato nei secoli, ma più in generale del carattere e della personalità dell'italiano del nord.
Uva delle nebbie - da qui, probabilmente, il nome - si concede rustico e montano in Valtellina, sottile e minerale in alto Piemonte, e infine nelle Langhe, il nebbiolo, raggiunge i vertici di complessità, ricchezza, longevità. Merito, certo, di un terroir Patrimonio dell'Umanità, che non ha bisogno di presentazioni. Rustico e aristocratico al tempo stesso, è destinato all'invecchiamento come pochi altri vini al mondo. Quanto può invecchiare il nebbiolo? Nei casi più evoluti e aristocratici, anche più di vent'anni.
Un po’ di storia del nebbiolo
Il nebbiolo è l’uva a bacca rossa più rappresentativa del nord Italia e il suo cammino ci fa marciare nel tempo e nello spazio.
Nel tempo, perché i più antichi documenti che citano quest’uva così nobile e così contadina insieme risalgono al Medioevo, precisamente al 1272, quando Edoardo I d’Inghilterra ne riceve in regalo dalla zona tra Rivoli e Alba (ma già nel 1266 il nebbiolo è ricordato come l’uva coltivata al Castello di Rivoli). Da allora, le citazioni dell’uva nebiola in atti pubblici e privati, ma anche nei più celebri manuali di enografia a partire dal Trecento, non si contano.
Nello spazio, perché mettersi in cammino con il nebbiolo significa percorrere un meraviglioso itinerario che, dalle dolci colline delle Langhe, del Roero e del Monferrato, patrimonio dell’umanità UNESCO, conduce fino ai ripidi terrazzamenti cinquecenteschi della Valtellina, passando per i vigneti del Canavese e dell’alto Piemonte, un tempo estesissimi e oggi rubati ai boschi in un certosino e faticoso lavoro di recupero.
Non manca chi sostiene che questo percorso cronologico vada invertito, e che il nebbiolo abbia avuto origine non nell’odierno Piemonte, ma in Valtellina, dove risulta documentato per la prima volta nel Cinquecento. È probabile che metà del patrimonio genetico del nebbiolo si debba a un antico autoctono valtellinese, unitosi forse con la freisa, varietà piemontese oggi un po’ trascurata, ma fino a qualche decennio fa considerata adattissima a far grandi vini da affinamento.
L’aristocrazia del nebbiolo, che certamente è stata sempre percepita sul territorio, è stata codificata soprattutto a partire dall’Ottocento, grazie a personalità come Camillo Benso di Cavour, primo presidente dell’Italia unita ma, prima ancora, ministro dell’agricoltura del Regno di Sardegna, e Quintino Sella, ministro delle finanze del Regno d’Italia e titolare di una delle tenute vinicole più importanti dell’alto Piemonte, a Lessona.
Questa “codificazione del nebbiolo” ha portato ad alcuni risultati epocali:
- la vinificazione del nebbiolo secco, mentre prima si prediligeva una versione dolce o amabile;
- la vinificazione del nebbiolo in purezza, o almeno in prevalenza rispetto ad uve comprimarie, soprattutto barbera, freisa e dolcetto, che comunque vanno tutelate come parte integrante della tradizione vitivinicola del luogo;
- l’istituzione dei primi disciplinari di produzione dei vini a base di nebbiolo, e di conseguenza la fondazione dei primi consorzi e delle prime cantine cooperative del territorio;
- il conseguimento dei primi importanti riconoscimenti internazionali in fiere o concorsi di settore.
La morfologia e il terroir ideale
Certamente, la palma del primato storico del nebbiolo non è assegnabile con facilità, proprio a causa della natura stessa del vitigno, che per cloni e varietà è certamente tra i più poliedrici al mondo. Certo è che dal punto di vista genetico, al di là dei classici cloni in cui si distingue il nebbiolo nelle Langhe (lampià, michet, rosé e bolla), i “nebbioli di montagna” (Valtellina, alto Piemonte, Valle d’Aosta) sono grossomodo paragonabili tra loro, mentre quelli più rappresentati nel Piemonte meridionale sembrano riconducibili a una famiglia a sé stante.
Una situazione tanto variegata quanto affascinante, che nella storia si è tradotta nei mille modi con cui, localmente, il nebbiolo viene chiamato: spanna, chiavennasca, picotender, prunent sono solo alcuni dei nomi che identificano questa varietà, che oggi occupa circa 4500 ettari in Piemonte, 850 in Valtellina, 45 in Valle d’Aosta e pochi scampoli in altre regioni come il Veneto e la Sardegna. Il 75% del nebbiolo mondiale è allevato in Piemonte, a dimostrazione che si tratta di una varietà molto legata al proprio terroir d’origine.
Il nebbiolo rappresenta la quintessenza del vitigno nobile italiano. A differenza delle grandi uve internazionali di origine francese, che si esprimono bene a diverse latitudini, le grandi uve autoctone italiane raccontano per loro natura terroir molto specifici, caratterizzati da microclimi e da fazzoletti di terra in cui la variabilità dei suoli è altissima. Per questo il nebbiolo può essere definito un “vitigno di terroir”, strettamente legato alle sue zone d’elezione e protagonista di un’esperienza irripetibile altrove.
Come tante uve esigenti e complesse da allevare, il nebbiolo ha un ciclo vegetativo molto lungo, con germogliamento precoce e maturazione tardiva. Il nebbiolo presenta acini fitti e piccoli di color azzurro cupo, turchino, spesso ricoperti da abbondante pruina che li rende quasi “avvolti nella nebbia”. Questa potrebbe essere un’origine del suo nome, anche se altri sostengono che esso derivi dal fatto che il nebbiolo dà il meglio di sé in climi capricciosi e autunnali. Protagonista di areali in cui pochi altri vitigni riuscirebbero a sopravvivere con profitto, il nebbiolo è tuttavia molto esigente: si esprime bene tra i 200 e i 500 metri di altitudine, purché ben esposto verso meridione e disposto in filari che lascino penetrare adeguatamente i raggi del sole.
Soprattutto nelle Langhe, il nebbiolo ha pian piano rosicchiato ettari alle altre uve tipiche del territorio, arrivando ad occupare tutti i migliori vigneti della zona, che oggi i disciplinari delle denominazioni più quotate hanno classificato in prestigiose sottozone.
Le zone di produzione: le Langhe
Le zone di produzione del nebbiolo sono quindi limitate a pochi fazzoletti di terra. A farla da padrone è sicuramente il Piemonte, e in modo particolare le Langhe. Nelle Langhe si trovano infatti le denominazioni più conosciute e migliori del nebbiolo, quelle dove il vitigno si esprime ai massimi livelli soprattutto nel lungo affinamento. È la zona in cui i suoli, argilloso-calcarei molto compatti, e il clima, fresco e collinare, esaltano le doti del nebbiolo più famoso al mondo: il Barolo.
Come il nebbiolo diventa Barolo? Il Barolo ha origine dai vigneti di nebbiolo coltivati esclusivamente negli 11 comuni della denominazione Barolo DOCG, e per legge deve essere sottoposto a un periodo minimo di invecchiamento di 38 mesi, di cui 18 in legno.
Gli undici comuni della DOCG Barolo regalano un nebbiolo eccezionale, che viene imbottigliato dopo almeno tre anni di affinamento in grandi botti di rovere, che diventano ben cinque per la tipologia “riserva”. Qui si concentrano alcune delle cantine più note al mondo, che lavorano un Barolo spesso “tradizionale”, ma a volte anche “modernista”, cioè con affinamento in botti medie o piccole, “alla francese”: dal nebbiolo Pio Cesare a Ceretto, da Massolino a G.D. Vajra, da Bartolo Mascarello a Giacomo Conterno per citarne solo alcuni.
In più, da qualche anno il disciplinare del Barolo ha riconosciuto ufficialmente i cru della denominazione. I cru del Barolo sono i vigneti che da sempre hanno dato i migliori risultati per maturazione delle uve e longevità del vino, sempre ricordando che il Barolo ha un potenziale di affinamento che supera i trent’anni. Così, mentre un tempo era considerato tipico il Barolo da assemblaggio di molti vigneti, ora spopolano i monovigneto, e nomi come Vigna Rionda, Lazzarito, Francia (culla del celeberrimo Barolo Monfortino), Cannubi e molti altri sono diventati di prestigio mondiale.
Nelle Langhe, non tutto il nebbiolo è Barolo. C’è anche il Barbaresco, a pochi chilometri. Un nebbiolo teso, più rustico e dinamico di sua maestà il Barolo. Lo lavora una straordinaria cantina cooperativa come i Produttori del Barbaresco, ma è anche la patria di miti del vino mondiale come Angelo Gaja e Bruno Giacosa. Anche qui ci sono straordinari cru come Rabajà e molti altri. Il nebbiolo più giovane prodotto in Langa rientra nelle denominazioni regionali: Langhe Nebbiolo e Nebbiolo d’Alba.
Le zone di produzione: il Piemonte oltre le Langhe e la Valtellina
Al di fuori delle Langhe, in Piemonte si fa molto nebbiolo anche in Monferrato e nell’Astigiano, ma sono zone dove va più forte la barbera, e il nebbiolo si presenta in genere giovane, immediato, senza grandissima complessità. È invece corposo, longevo e intrigante nel Roero, cioè la zona poco a nord delle Langhe, dove si trovano grandi Roero Rosso Riserva a base nebbiolo. Ma la zona, ormai, è nota soprattutto per le irresistibili aromaticità dell’arneis.
L’alto Piemonte è una zona altrettanto classica del nebbiolo. Si tratta di un vigneto molto poco esteso, di montagna, su suoli porfidici di origine vulcanica (localmente calcareo-argillosi), estremi e molto in pendenza. Le vigne sono state sottratte a fatica ai boschi che ancora le circondano, e vanno quotidianamente difese dagli animali selvatici. Da queste zone, e in particolare dalle nobili denominazioni del Gattinara, del Boca, del Ghemme, del Bramaterra e del Lessona, deriva un nebbiolo molto teso, duro, nervoso, estremamente ferroso e minerale, dal sorso sapido e a volte speziato.
Un nebbiolo fuori dagli schemi, di altissima personalità, struttura finissima anche se meno elegante e più rustica del nebbiolo delle Langhe. È questa la patria di alcuni grandi nomi del rosso italiano come Travaglini, Le Piane, Antoniotti, le Tenute Sella. Da queste parti, si usa ancora molto spesso assemblare il nebbiolo con le altre uve minori del territorio, come la vespolina. Non si toglie nulla alla longevità del prodotto, che anzi è quasi sempre affinato con lunghissime soste in botti grandi di legno. Si fa nebbiolo anche al confine tra Piemonte e Valle d’Aosta, con il grandissimo Carema, su vigne terrazzate con vista mozzafiato sulle Alpi, e il piccolo Donnas, già in Vallée.
La Valtellina, in alta Lombardia, ospita certamente il più estremo dei nebbiolo di montagna. Le vigne, che arrivano ai 700 metri di altitudine e includono ceppi antichissimi, regalano pochi ma eccezionali frutti di un nebbiolo unico per sottigliezza, territorialità e longevità. In questo comprensorio, il nebbiolo acquista grandissima acidità e, quindi, un inesauribile patrimonio destinato a evolversi nel tempo.
Non a caso, anche da queste parti gli affinamenti in botte grande sono molto prolungati e possono superare i cinque anni, come nel caso delle grandi riserve di Ar.Pe.Pe.. Inoltre in Valtellina si produce un grande nebbiolo vino rosso secco, affinato in legno, da uve nebbiolo precedentemente appassite: si chiama Sforzato ed è un rosso opulento ma elegante, di grande finezza e complessità, il cui esempio più emblematico è il mitico Sfursat 5 Stelle di Nino Negri.
I vini da uve nebbiolo: arte tra profumi e sapori
Tra le costanti più riconoscibili del nebbiolo vinificato c’è sicuramente il colore, che è sempre di un rosso relativamente scarico, poco intenso e trasparente, sia esso incline al rubino (da giovane) o al granato-mattone (con l’affinamento). Questa caratteristica è dovuta al fatto che l’uva nebbiolo è ricca nelle proprie bucce di antociani monomeri, cioè tendenti a una rapida precipitazione, solitamente già in fase di pigiatura.
Il nebbiolo è, in linea generale, un vino che premia la finezza e l’eleganza. Tranne rari casi, il nebbiolo non sarà mai un rosso opulento e muscolare, anche perché il colore scarico è già indice di una struttura verticale, cesellata, cerebrale molto più che potente. In gioventù, il nebbiolo esprime profumi di frutta rossa molto fragranti, dal lampone alla ciliegia sotto spirito, che si accompagnano a sottili note floreali di viola e rosa appassita. Le erbe aromatiche come la salvia, il timo e il pino silvestre si uniscono spesso a una naturale balsamicità.
Le grandi denominazioni del nebbiolo sono ormai note al pubblico internazionale degli appassionati. Non solo Barolo, ma anche Barbaresco, Gattinara, Bramaterra, Valtellina Superiore sono vini diventati iconici per l’ampiezza delle loro sensazioni organolettiche e per la longevità che li caratterizza, soprattutto dopo i lunghi affinamenti in botte. Affinamenti tradizionali che esaltano l’austerità e la grandezza del nebbiolo inteso come vino intellettuale, talvolta da meditazione, comunque concepito come esperienza sensoriale superiore: note, quindi, di china, spezia, pepe nero, tabacco, caffè, liquirizia, pelli, pietra bagnata, humus, fino ai sentori eterei, di smalto e goudron, caratteristici dell’evoluzione in bottiglia.
In realtà, la storia del vitigno nebbiolo e dei suoi vini è molto più complessa e, diremmo, contadina. Un tempo il nebbiolo era avvertito più o meno come gli altri vitigni del territorio: un’uva, cioè, atta a produrre vini “commestibili”, che andassero bene anche per tutti i giorni, per abbinamenti comuni, per il consumo quotidiano. Un’uva aristocratica, certo, perché scontrosa e ruvida in gioventù, e per questo unita quasi sempre con altre, più morbide, rotonde e aromatiche già a pochi mesi dalla vinificazione.
Questa scontrosità è fatta di un’elevata acidità e di una chiara nota sapida, che si esaltano a seconda del terroir. Unite al tannino sempre ruspante ed esuberante, queste caratteristiche del nebbiolo conferiscono all’assaggio un tratto ammandorlato molto teso e ben riconoscibile nella persistenza. È chiaro che il lungo affinamento va a smussare queste spigolosità, e che una grande riserva di Barolo, dopo cinque anni di botte, regala sensazioni un po’ più carezzevoli. Ma in generale anche il più grande di nebbiolo conserverà sempre una intrigante ambivalenza tra la straordinaria intensità dei profumi e degli aromi e la relativamente agile e leggiadra struttura del sorso.
Perché il nebbiolo è così longevo?
Vino dal tannino ruvido e indomito in tenera età, il nebbiolo riceve con molto giovamento un affinamento in legno, tanto che le sue versioni più prestigiose non possono prescindere da questa pratica. Al di là delle note controversie – ormai, a dir la verità, un po’ archiviate – tra sostenitori del legno grande (i cosiddetti “tradizionalisti”) e della barrique (i “modernisti”, tra cui i barolo boys), è chiaro che da un legno più o meno influente esce un nebbiolo completo e di austera ampiezza olfattiva, con note speziate e tostate, ma anche con una lunga storia di aromi terziari davanti. Sentori eterei, resinosi, balsamici sono del tutto comuni in un nebbiolo che, come da manuale, si è lasciato attendere in bottiglia per un buon ventennio.
Perché quindi il nebbiolo è così longevo? Merito dei climi e dei terroir, certo, ma anche dell’uva in sé e, quindi, del vino. Il nebbiolo possiede infatti una grande carica acida, minerale e tannica, che è tutto il patrimonio necessario a proiettarlo verso lunghissimi affinamenti sia in cantina sia in bottiglia. Un patrimonio di notevoli durezze giovanili che, con il tempo, va smussandosi esprimendo rossi dal carattere sempre austero e verticale ma via via sempre più vellutato e carezzevole.
Nebbiolo, abbinamenti
In temi recenti, il nebbiolo si è scoperto un buon vitigno anche per produrre vini bianchi e rosati. Nelle Langhe, tradizionalmente si riservano alcune partite di Barolo per farne un vino rosso aromatizzato alle erbe, che si chiama Barolo chinato. Ma si tratta di prodotti di nicchia, che esprimono solo in parte le qualità di questa uva. Ovviamente è in abito rosso che il nebbiolo sfodera tutte le sue grandiose caratteristiche, nell’immediato e negli anni.
Cosa abbinare al nebbiolo? Il nebbiolo si abbina ottimamente con la cucina tipica del territorio, soprattutto se ricca ed elaborata. Non tutti gli antipasti sono adatti ad essere accompagnati da un nebbiolo. Possono esserlo alcune crudità di carne ben aromatizzati, come una salsiccia di Bra o una sostanziosa battuta di Fassona, ma a condizione che il nebbiolo sia giovane e non troppo affinato.
Tra i primi, il top sono sicuramente le paste all’uovo ripiene di carne come i ravioli del plin. Ottimi anche i taglierini all’uovo con il tartufo bianco d’Alba, e in generale tutti i ragù, ma soprattutto di selvaggina. Benissimo anche i salmì, ad esempio di cervo, con una bella carica speziata di chiodo di garofano. Risotti al Castelmagno e simili possono essere degnissimi compagni di un grande nebbiolo.
Con i secondi ci si può sbizzarrire, anche se il nebbiolo gradisce le carni da lunghe cotture, riccamente condite da salse e intingoli. Bene quindi i brasati (brasato al nebbiolo o brasato al Barolo) e gli stracotti, e tutti gli arrosti, ma specialmente di manzo, e soprattutto se ripieni. Ottima, in generale, anche la selvaggina, compresa quella di pelo. Da provare con preparazioni come il coq-au-vin, ad esempio.
Non va poi dimenticato che i grandissimi nebbiolo, dopo lunghissimi affinamenti, come un Barolo d’eccezione, possono essere sorseggiati come vini da meditazione.
Temperatura e modalità di servizio
Rosso elegante e sottile ma di grande intensità, il nebbiolo va servito a non meno di 16-18°C in ampi calici rotondeggianti che gli permettano di sprigionare nell’aria, con un adeguato contatto con l’ossigeno, tutta la sua incredibile gamma aromatica. Nebbioli più giovani e pungenti possono essere anche apprezzati in calici di media dimensione. Al contrario, a un Barolo o a un Gattinara che abbiano alle spalle lustri di evoluzione, andrà riservata una temperatura di servizio di circa 20°C.
La decantazione non è strettamente suggerita, ma su questo tema le scuole di pensiero sono molteplici e dipendono dalla sensibilità di chi si occupa della conservazione e del servizio della bottiglia. La si può evitare collocando la bottiglia in verticale alcune ore prima del servizio e prestando poi particolare attenzione a versare il vino nei calici senza lasciar scivolare i residui del fondo. Sarà poi compito degli stessi ampi calici svolgere un ruolo di ossigenazione e stabilizzazione di un vino che, va ricordato, continuerà a cambiare e ad evolvere durante tutta la degustazione.